Dal DE SITU IAPYGIAE (1511)

Note ambientali e produzioni nel paese natio di Antonio Galateo De Ferraris*  

Antonio Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), medico, filosofo, corografo, umanista, naturalista e amico dei sovrani aragonesi, fu autore di svariati trattati ed epistole. Tra le sue opere più note, il DE SITU IAPYGIAE (1511) è una descrizione della Terra d’Otranto scritta agli inizi del  seicento. In essa l’autore esalta i fasti della regione nativa, descrivendone città e paesi, ruderi, storia e tradizioni, caratteri delle popolazioni, personalità, prodotti specifici dei territori. In questa nota  sono riportate le osservazioni del Galateo sulla vegetazione ed i prodotti tipici del suo paese natio.

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La Regione Iapigia corrisponde al territorio delle tre province di Taranto Brindisi e Lecce, prima della disgregazione politico-amministrativa attuata in epoca fascista. Sostanzialmente essa comprende la penisola salentina bagnata, da un lato dal mare Ionio, e dall’altro dall’Adriatico. Agli inizi del  seicento questa regione, che aveva fatto parte dell’antica Magna Grecia,  era già nota anche  con  i nomi di Peucezia e Messapia. Il De Situ si ispira all’opera geografica di Strabone, ma anche ad altri geografi antichi, come Plinio il Vecchio e Tolomeo, nonché ai moderni Flavio Biondo e Leonardo Bruni, offrendo una svolta di originalità e di contenuti alla scienza corografica che stava aggiornandosi e riqualificandosi in seguito alle scoperte di nuove terre. Il Galateo nella sua opera scrive:

recuperare le scarne memorie del passato che il tempo insidia e divora inesorabilmente, e documentare il poco che c’è per farlo conoscere a coloro che verranno dopo di noi diventa impegno preciso e indifferibile, una battaglia di cultura e di civiltà”.

Descrivendo gli aspetti ambientali, naturalistici e delle tipicità produttive  della sua città natia (territorio di Galatone, dove una volta sorgeva il famoso cenobio dei monaci di Basilio il Grande) dice:

qui il clima è salubre e mite, l’aria salutare e dolce, la campagna soleggiata e sempre rinnovantesi, a primavera, di fiori e erbe odorose: timo, santoreggia. puleggio, serpillo, issopo, meliloto, camomilla, calaminta, delle quali abbonda ovunque. provengono un ottimo formaggio, miele di qualità non inferiore a quello dell’Inietto e uno zafferano assai apprezzato. Insomma, quale è fra i Marsi e i Peligni lo zafferano di Sulmona, tale è fra i Salentini quello di Galatone. Ai tempi dei nostri padri nel Salento lo zafferano si produceva qui e in nessun’altra parte. Da dove sia giunto fino a noi non è accertato; comunque, pare che solo questa terra produca spontaneamente lo zafferano. Qualunque campo in cui non si trovino maiali abbonda di zafferano selvatico che nel fiore, nel bulbo e nei filamenti è simile a quello coltivato negli orti. Anche nei tempi di crescita coincidono; entrambi, infatti, fioriscono dopo la levata di Arturo1. Non sarà che lo zafferano coltivato era una volta selvatico e, come gli animali, così anche le piante son divenute domestiche per mano dell’uomo? Teofrasto si chiede se quelle che ora sono domestiche non siano state tutte selvatiche ma non è nei compiti del presente lavoro approfondire la questione; che questa materia, come è degna di esser conosciuta, così è difficile da sviscerare. Però non si deve ignorare che vi son molte piante che cambiano quando son coltivate o smettono la loro veste selvatica o si adattano all’ambiente domestico allo stesso modo in cui molte, allorché sono trascurate, inselvatichiscono o perdono in qualità. Penso che, se qualcuno trapiantasse i bulbi dello zafferano selvatico da un terreno in un altro e lo coltivasse con assiduo impegno, esso diverrebbe col tempo tale quale è ora quello coltivato. Sono molte le piante le cui prerogative naturali sono così resistenti che traggono scarso giovamento dalla cura degli uomini o scarso danno dalla loro trascuratezza. Tali sono, fra gli alberi: il nocciolo, il noce, il pino, la palma, il cipresso, il platano, il loto e tutti gli alberi che emettono ghiande; fra gli arbusti: il mirto, il corbezzolo, l’assenzio, il rosmarino e il lentisco; fra le erbe: la maggiorana, il macerone e la calaminta. Sono molte, infatti, che son refrattarie alla coltivazione o si sviluppano a dispetto della trascuratezza, delle offese (come le chiama Plinio), delle maledizioni e delle contumelie, imitando così la natura degli uomini più indegni, per i quali le buone azioni sono molestie e le molestie buone azioni.

Galatone si pregia di produrre specialmente sette prodotti del colore dello zafferano: lo stesso zafferano, il miele, il formaggio, il vino, l’olio, i fichi secchi e l’uva passa. Tutta l’area è povera di acqua e dispone di rari pozzi, ma molto profondi: trentatré passi nella città, trentasette nell’antica e distrutta cittadella. Nell’intero comprensorio si notano innumerevoli cisterne; donde si può argomentare con certezza che si trattava di una città ben popolata”.

Vittorio Zacchino, che ha curato la pubblicazione del De Situ Iapygiae con la traduzione in inglese e tedesco, cosi’ commenta: “oggi il Salento iapigio, pur conservando intatta la primigenia millenaria parentela con l’Oriente, è sempre più crocevia di vario fervore meridiano, riva degli approdi e degli imbarchi, dove s’intrecciano le voci e i linguaggi d’Europa, il pluralismo delle idee e delle pelli. A queste genti si rivolge l’aureo libretto galateano. con la sua inossidata freschezza cinquecentenaria, che custodisce e offre un Salento mitico, solare, ricco di cultura e di bellezza. Così Antonio Galateo ritorna ad essere icona e blasone di nobiltà, ambasciatore della nostra terra in Europa e nel mondo.

Oggi, nel cinquecentenario della morte del Galateo, della sua terra natia resta il clima salubre e mite, l’aria salutare e dolce, e la campagna soleggiata che si rinnova a primavera ma con meno fiori e rare erbe odorose. Alcune erbe spontanee sono scomparse ed i prodotti tipici sono molto rari2.

 

Note:

*Tratto da Antonio Galateo De Ferrari -Lecce e terra d’Otranto- De Situ Iapygiae a cura di Vittorio Zacchino. EdiPan editore 2004

1si deve intendere la coda dell’orsa maggiore

2Alba E., 2018. Osservazioni e indagini locali.